Meglio saper comprare o saper vendere?
Ormai non è più sufficiente saper comprare bene, è diventato prioritario saper vendere ciò che si è comprato. Buyer o seller, quale è la tua attività principale?
Ovviamente importanti entrambe, ma spesso il tempo assorbito dall’impegno dedicato agli acquisti non viene considerato nel bilancio aziendale, così come non viene considerato quanto quel tempo avrebbe fruttato se fosse stato dedicato al cliente. Spesso ci ritroviamo a rincorrere sconti che nemmeno riusciamo ben a quantificare, a pensare di aver spuntato condizioni esclusive, a ritenere l’agente di zona come un amico.
Quando ci parlano di Category Management non dobbiamo pensarlo come semplice attività di gestione dell’esposizione, ma serve anche per scegliere i prodotti da trattare e quindi definire i partner commerciali, che vanno selezionati per:
- Importanza (posizione della marca sul mercato e tipologia dei prodotti)
- Potenzialità (sviluppo che possono promettere al singolo punto vendita)
- Servizio (es. supporti quali merchandising o campioni omaggio per la clientela)
- Economicità (convenienza commerciale)
Sono ormai divenuti “leggende metropolitane” i racconti dei rappresentanti dell’industria sul come avvenivano una volta le vendite in farmacia dei prodotti commerciali. Aziende che si dice vendessero viaggi o gadget e regalassero prodotti (modo di dire per indicare come avveniva la trattativa commerciale). Del resto, erano tempi in cui comunque si riusciva a vendere di tutto in farmacia, bastava esporlo sul banco. In tempi più recenti si racconta di acquisti con la formula del 10+2 o 10+4 o quel che preferite tanto comunque non si sapeva mai bene il prezzo di partenza e, del resto, questa informazione non era nemmeno tanto importante dato che quel prodotto era venduto solo in farmacia, aveva un suo preciso prezzo al pubblico fissato dall’azienda e uguale per tutti e c’era una discreta disponibilità economica da parte del cliente. Da qui per arrivare poi ai casi limite in cui alcuni farmacisti rifiutavano l’offerta di un 200+80 a favore di un 200+50 perché altrimenti il numero di pezzi totali non avrebbe consentito di venderli entro i termini di pagamento pattuiti. Potremmo procedere oltre, con i favolosi sconti del 70% o 80% calcolati su prezzi al pubblico gonfiati e oggi non più proponibili in una logica di libero mercato e di allargata concorrenza. E poi ancora, le formule del cambio dei prodotti (della concorrenza o di scaduti) con altri ceduti ovviamente a sconto inferiore di quello che altrimenti il rappresentante avrebbe potuto concederci. E infine le formule del conto vendita, pericolosissime perché creano nuove aspettative nel cliente salvo poi non trovare più il prodotto tanto raccomandatogli dal farmacista appena qualche mese prima, con il cliente che allora si domanda: “sono forse stato una cavia?”. Queste logiche hanno portato a magazzini con stoccaggi infiniti, a una non conoscenza della redditività effettiva delle merceologie, a una confusione nei diversi settori, a sovrapposizioni di offerte, cartelli, espositori… Forse potremmo andare ancora avanti, ma questi esempi dovrebbero essere sufficienti per rendere l’idea di come una volta la trattativa con l’industria fosse altra cosa rispetto alle esigenze di oggi.
Il problema diventa però serio quando ci continuiamo a trascinare certi errori. Probabilmente è un retaggio che risiede nella nostra cultura sul farmaco ove il prezzo di vendita è determinato per legge e noi trasferiamo anche sul commerciale il ragionamento in termini di sconto anziché di ricarico e di effettiva vendibilità del prodotto. Sconto e ricarico che sono due concetti completamente diversi non solo nella loro essenza (e quindi determinazione), ma anche nelle loro prerogative e potenzialità. Il ricarico, infatti, presuppone sempre il quesito: “a che prezzo di mercato posso vendere questo prodotto, tenendo quindi conto di concorrenza, strategie, investimenti, ecc., e conseguentemente a quanto lo devo acquistare per avere un margine corretto per la sopravvivenza della mia Azienda?”. Ancor oggi invece ci s’illuminano gli occhi quando qualcuno ci propone uno sconto dell’80%, non importa se questo significa averlo calcolato su un prezzo al pubblico tale che non ci farà mai più vendere quel prodotto, specialmente se l’azienda ci rassicura che, “mal che vada”, lo potremo sempre rendere.
Purtroppo però, rispetto al passato, subentra un nuovo fattore di rischio per le farmacie: la concorrenza! Questa novità del settore ci impone di confrontare il nostro prezzo imparando a considerare le caratteristiche della domanda (rotazione delle vendite), la valutazione dei costi di approvvigionamento e le politiche commerciali (nostre e dei concorrenti) secondo precise strategie da predisporre. Sono queste considerazioni che ci portano a definire la scelta delle merceologie. Dobbiamo così analizzare:
- Definizione dell’assortimento da trattare (ampiezza, profondità di gamma e scelta tra assortimento specializzato o despecializzato), selezionando marche e tipologie di prodotto.
- Una valutazione della nostra capacità di offrire adeguata assistenza (consiglio e competenza) durante la vendita.
- Verificare la possibilità di offrire una corretta e bilanciata esposizione di tutto ciò che trattiamo.
- Gestione della gamma, ovvero la capacità di monitorare costantemente la rotazione e la conservazione dei prodotti trattati.
Dobbiamo infine fare anche i conti con i costi correlati al mantenimento delle scorte, quindi: mancato altro investimento, resa del capitale impiegato per l’acquisto dei prodotti, impegno (acquisto o affitto) dei locali destinati allo stoccaggio, costi per l’acquisto delle strutture di magazzino (scaffali, materiali, ecc.), costo del personale addetto ai rifornimenti e al controllo dei prodotti e alle pulizie,
costi delle rimanenze finali e, non da ultimo, il costo del titolare nella funzione di buyer (quindi tempo del professionista che si dedica agli acquisti)
Se è vera la regola empirica che dice come in un’azienda, mediamente l’80% del fatturato è realizzato dal 20% delle referenze trattate; un ulteriore 15% viene realizzato da un altro 30% dei prodotti e che solo il 5% viene realizzato con il rimanente 50% dell’assortimento sarebbe tuttavia semplicistico concludere che per ottimizzare l’azienda basti eliminare l’80% dei prodotti. Invece, un dato particolarmente utile da conoscere è l’indice di rotazione del proprio stoccaggio, perché ci permette di sapere in quanti giorni rientra il nostro investimento per gli acquisti di merce, dandoci così indicazione della nostra esposizione media nei confronti dei fornitori. In questi anni di marginalità ridotte, credo sia interessante sapere se paghiamo la merce sperando di poterla vendere o piuttosto sapere che quanto pagato è già stato venduto.
In definitiva, il nostro deve essere un ruolo di buyer o di seller? Che cosa significa essere un buon compratore (buyer) o un buon venditore (seller)?
Essere buyer generalmente implica:
* Il tempo dedicato agli acquisti e sottratto a clienti.
* L’aumento delle scorte di magazzino.
* La possibilità di errori con conseguenti giacenze eccessive che inducono alla “spinta” (promo) non professionale.
* La possibile detenzione di un prodotto sbagliato, per tipologia o cambiamenti di mercato (mode, subentro di novità, ecc.).
* Invecchiamento dei prodotti.
* Condizioni non costantemente garantite dall’industria e operazioni di reso a rischio nelle nuove contrattazioni.
In una valutazione globale degli impegni, un buyer deve quindi tener presente:
– i rischi imprenditoriali dovuti alle dinamiche di mercato, quali il cambio del packaging dei prodotti o la possibilità di improvvise riduzioni del prezzo di vendita.
– il tempo sottratto ai nostri Clienti per dedicarci alla gestione degli acquisti; quindi il minor tempo a disposizione per curare l’immagine, l’esposizione dei prodotti e le iniziative commerciali sempre più indispensabili nella moderna farmacia.
– l’acquisto di grossi quantitativi che può andare a discapito della capacità/possibilità di ampliare l’offerta
– in taluni casi, l’occupazione di locali per lo stoccaggio dei prodotti che potrebbero essere sfruttati per attività in grado di apportare ulteriori redditi o vantaggi.
Essere seller invece significa:
- Poter esprimere professionalità nel ramo salute e quindi garantire il pubblico
- Essere professionisti nel ramo benessere: curare i rapporti per gratificare il cliente
- Curare e coordinare esposizione e immagine della farmacia
- Sviluppare i servizi, ottenendo una maggior fidelizzazione
- Potersi aggiornare per dare risposte al nuovo pubblico sempre più informato
- Programmare e impostare campagne di vendita
Avendo quindi deciso di dedicare maggior tempo al proprio cliente, allora ci sono cose che non dovrebbero essere fatte da un buon seller:
– Trascurare la gestione globale, lasciando che i cambiamenti travolgano la farmacia
– Non essere sempre ascoltatori attenti di ciò che il pubblico si aspetta o desidera
– Non essere sempre all’altezza della situazione tramite una costante formazione
– Ingannare il pubblico con prodotti di bassa qualità
– Eccedere nel trattare ed esporre prodotti creando confusione
– Consigliare e vendere solo in base alle proprie convenienze
Quindi, potremmo concludere che essere seller aiuti a ottenere:
- auto-coscienza (capire quali sono le reali potenzialità che abbiamo)
- auto-critica (valutare il nostro posizionamento per capire chi siamo realmente)
- predisposizione al cambiamento (definire cosa realizzare per soddisfare i nostri clienti)
di Paolo Piovesan
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